L’orientamento
Una delle immagini più efficaci per descrivere il carattere puntiforme della conoscenza letteraria, e la funzione di orientamento che da essa deriva, è data dalle stelle. Il simbolo delle stelle ricorre con frequenza, ad esempio, in una poesia tipicamente auto-referenziale (che parla di se stessa) e poetologica (che parla della Poesia in generale) come quella di Mallarmé. Uno fra i tratti più notevoli di questo impiego è che, in Mallarmé, il simbolo delle stelle fa da pendant a quello del tramonto del sole, che raffigura a sua volta il venir meno delle illusioni personali, della fede religiosa, dei fondamenti storici, politici e culturali del XIX secolo: in altri termini, che rinvia direttamente al fenomeno del nichilismo europeo. In tal senso non è casuale che, pur senza alcuna conoscenza reciproca, negli stessi anni anche Nietzsche impiega l’immagine del tramonto per descrivere espressamente la morte di Dio.[1] In questo contesto di notte e di oscuramento, la poesia di Mallarmé enuncia se stessa nell’immagine delle stelle: lo «splendente settetto» che chiude il Sonetto in -yx o la «costellazione / fredda d’oblio e desuetudine» in cui si trasforma da ultimo il Colpo di dadi: luci che si stagliano nel cielo ad indicare una molteplicità di significati, e a suggerire una possibilità di orientamento. Non di rado, in Mallarmé il simbolo delle stelle si incrocia con la metafora, anch’essa auto-referenziale, del viaggio per mare, portando a enunciati di estrema densità come «Solitudine, scoglio, stella» di Saluto o come il suo omologo «Notte, disperazione e gioielli» del Sonetto a Vasco: trittici che esprimono il costo umano dell’esperienza poetica, il rischio di naufragare nella notte e la funzione di orientamento della poesia, le cui luci di stella (o di diamante) permettono di orientarsi nel mondo oscurato, e di tracciare la propria rotta.
In termini meno diretti, la funzione di orientamento della letteratura ritorna anche nel pensiero di Benjamin, in particolare nelle opere che analizzano la metropoli moderna come luogo specifico, e come immagine particolarmente efficace, di una molteplicità di persone, cose e messaggi che non possono più essere ricondotti a un principio unitario. In questo senso, come suggeriscono gli appunti del Passagen-Werk, il flâneur parigino non vaga sperduto nella metropoli, ma si orienta in essa attraverso le soglie e i nomi delle strade. Questi ultimi, tuttavia, hanno uno status ambivalente tra l’ordine («La città, con i nomi delle sue strade, è l’immagine di un cosmo linguistico»),[2] e il caos («Che ne ha fatto la metropoli dell’età moderna dell’antica concezione del labirinto? L’ha elevata al livello del linguaggio, mediante i nomi di quella rete di strade» in cui la metropoli si articola).[3]
Soprattutto, però, i nomi delle strade non sono semplici indicazioni toponomastiche; sono veri e propri nuclei simbolici, o parole poetiche. Legati organicamente a ciò che designano, essi sono capaci di rendere «la nostra percezione più complessa e stratificata di quanto non sia nella vita quotidiana».[4]
«Al divampare delle luci elettriche, sbiadisce lo splendore interno dei passages e si contrae nei loro nomi. Il nome, però, è come un filtro, che lascia passare solo il più intimo, l’amara essenza di ciò che è stato. (Questa meravigliosa capacità di distillare il presente come essenza intima di ciò che è stato, costituisce per i veri viaggiatori la potenza eccitante e misteriosa del nome)».[5]
Un’analoga funzione di orientamento attraverso i nomi, cioè tramite le parole poetiche, ricorre anche in Infanzia berlinese intorno al Millenovecento. In questa raccolta di brani autobiografici Benjamin, descrivendo i modi in cui da piccolo attribuiva senso alla realtà circostante, insiste su una particolare attività denominativa, quella di agire sui nomi di strade, mercati, sobborghi e monumenti di Berlino alterandoli leggermente, e creando così associazioni arbitrarie ma suggestive, piene di significati nuovi. Ecco, ad esempio, come Benjamin ricorda il luogo in cui andava a caccia di farfalle.
«L’aria in cui allora questa farfalla si cullava, è oggi tutta permeata da una parola che per decenni non mi è più capitato di sentire o pronunciare. Essa ha conservato quel carattere insondabile con cui i nomi dell’infanzia vanno incontro all’adulto. L’esser stati taciuti tanto a lungo li ha trasfigurati. In questo modo, per l’aria vibrante di farfalle, tremola la parola “Brauhausberg”. Sul Brauhausberg presso Potsdam avevamo la nostra abitazione estiva. Ma il nome ha perso ogni gravità, non conserva proprio niente di una fabbrica di birra [Brauhaus], ed è semmai un monte ammantato di azzurro [Bläue] che sorgeva d’estate per ospitare me e i miei genitori. Ed è per questo che la Potsdam della mia infanzia si colloca in un’aria così azzurra [in so blauer Luft], come se le sue antiope o i suoi ammiragli, le sue pavonie e le sue aurore costellassero uno di quegli splendidi smalti di Limoges, in cui i merli e le mura di Gerusalemme campeggiano su uno sfondo azzurro cupo [vom dunkelblauen Grunde]».[6]
Come si vede, il colore azzurro (blau) che permea e trasfigura il ricordo di questo luogo proviene direttamente dal termine Brau, riappropriato però dal protagonista attraverso la sua pronuncia da bambino, che trasforma la r in l; ed è appunto tale intervento a creare una suggestione del tutto nuova. In questo senso, come osserva Benjamin in un altro capitolo dell’Infanzia berlinese, «il malintendere mi deformava il mondo. Ma in modo positivo: mi additava le strade che portavano al suo intimo. Ogni occasione era buona. […] Se io deformavo in questo modo me stesso e la parola, facevo solo ciò che dovevo fare per metter piede nella vita»,[7] cioè per orientarmi in essa. Questo lavoro spontaneo sulla materialità linguistica è, però, un’operazione squisitamente (e tecnicamente) poetica; così come il nucleo centrale e originario dell’esperienza letteraria consiste nell’attribuzione di senso attraverso i nomi. Nei termini più specifici, quindi, sia il flâneur del Passagen-Werk sia il protagonista dell’Infanzia berlinese possono dire di sé, come Ungaretti in La pietà, «Ho popolato di nomi il silenzio»: cioè ho riempito di significati poetici, orientandolo in una cartografia nuova, uno spazio altrimenti amorfo o de-semantizzato.[8]
[1] Cfr. in particolare il § 343 della Gaia scienza.
[2] Walter Benjamin, I «passages» di Parigi, a cura di Rolf Tiedemann e Enrico Ganni, tr. it. di Renato Solmi, Antonella Moscati, Massimo De Carolis, Giuseppe Russo, Gianni Carchia, Francesco Porzio, Einaudi, Torino 2000, p. 915 (F°, 20).
[3] Ibid., p. 915 (F°, 19).
[4] Ibid., p. 931 (L°, 25).
[5] Ibid., pp. 907-908 (D°, 6).
[6] Walter Benjamin, Infanzia berlinese intorno al Millenovecento. Ultima redazione (1938), tr. it. di Enrico Ganni, Einaudi, Torino 2001, p. 15.
[7] Walter Benjamin, Berliner Kindheit um Neunzehnhundert, in Gesammelte Schriften, IV/1, hrsg. von Tillman Rexroth, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1991, pp. 260-261.
[8] Per ampliamenti su questo tema sia consentito rinviare a Pino Menzio, Orientarsi nella metropoli. Walter Benjamin e il compito dell’artista, Moretti & Vitali, Bergamo 2002.